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Business Intelligence: dove ci porteranno i Dati – Aperiform Info Easy
In occasione dell’Aperiform del 24 gennaio 2017, Info Easy ha intervistato il Prof. Gilberto Antonelli – Professore ordinario di Economia del lavoro Unibo e il Prof. Stefano Rizzi – Professore ordinario di Business Intelligence Unibo, sul tema della Business Intelligence.
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Ti invitiamo a guardare il Video Integrale dell’incontro su Youtube.
Estratto dell’intervista
L’incontro comincia con la presentazione da parte di Luca Spadoni (Responsabile CIO di Info Easy) dei due relatori Prof. Stefano Rizzi – Professore ordinario di Business Intelligence Unibo, e Prof. Gilberto Antonelli – Professore ordinario di Economia del lavoro Unibo, che andranno a dar voce al dibattito relativo alla Business Intelligence.
Comincia il Prof. Rizzi dando la definizione di Business Intelligence o BI.
La BI si occupa di compiere un passaggio (in due step) da: dati – informazione, e informazione – conoscenza.
Quando si parla di dati si fa riferimento ai dati che si hanno nell’azienda, cioè i dati gestionali. Questi dati sono tanti e difficilmente analizzabili, e in genere affetti da “sporcizia”. Sarebbe bello che non ci fossero errori, ma è impossibile. Ed è difficile fare dati quando sono sporchi. La prima cosa che fa la Business Intelligence è trasformare questi dati in informazione. L’informazione è una specie di “distillato” di dati, da cui si toglie ciò che non serve. Abbiamo integrato il patrimonio dei dati, corretto gli errori e risolto le incompletezze. Rimane quindi il succo, l’estratto.
Arriviamo così al secondo passaggio della BI: dall’informazione alla conoscenza. Ancora una volta riduce e arriva a capire cosa sta succedendo nell’azienda. La BI fa da supporto al processo decisionale. La BI ha quindi un’unica destinazione: aiutare i livelli alti dell’organigramma (i manager) a prendere decisioni.
Ci sono situazione in cui la Business Intelligence assume un ruolo tattico, ma nasce tendenzialmente con un ruolo strategico. Adesso le decisioni vengono prese in modo molto più veloce e sono decisioni informate e giustificate dai dati; tutto questo è possibile grazie alla BI. L’obiettivo è creare valore aggiunto per l’azienda, aiutandola a capire come sta andando il business e a prendere decisioni valide.
Viene presentata una slide con una piramide il cui obiettivo è mostrare come alla base c’è tanto valore, e in cima meno quantitativamente, ma di altissimo valore. Alla base si trovano i dati; al centro i valori; e in alto la conoscenza.
Benefici: si riesce a velocizzare il processo decisionale della propria azienda ottimizzando i processi stessi, si possono creare nuovi canali di profitto, guadagnare rispetto ai competitor e scoprire, in ultima analisi, i trend del mercato dentro e fuori alla propria azienda.
Ci si accorge per esempio che i clienti comprano di più certi prodotti rispetto ad altri e di conseguenza su questa base si possono scoprire problemi nel proprio business, magari si trova una falla nel ciclo di produzione.
Leggi anche il nostro articolo: Perché investire nella Business Intelligence
Viene poi introdotto il concetto di Data Warehouse che è un raccoglitore di dati provenienti da tanti database. E’ più precisamente un repository dentro cui vengono copiati i dati aziendali puliti e integrati in modo che possano essere direttamente interrogabili dal manager. Permette di fare tutto automaticamente. I dati qui sono già ripuliti certificati e garantiti. Più precisamente il Data Warehouse è un contenitore di informazioni che raccoglie e integra i dati provenienti da sorgenti diverse finalizzate ad analisi utili ai manager per fare supporto decisionale. L’aspetto “integra i dati” permette a una grande azienda di avere una visione a 360°.
Ma come fa un Data Warehouse a integrare i dati da sorgenti diverse?
Il Prof. Rizzi risponde dicendo che esistono degli strumenti che si chiamano ETL (estrazione – trasformazione – caricamento), che sono software che estraggono i dati dalle sorgenti, ne cambiano il formato, oppure fanno pulizia, grazie al processo cosiddetto Cleaning, poi integrano il tutto, lo impacchettano e caricano sul Data Warehouse.
Interviene Luca Spadoni che domanda al Prof. Antonelli di darci una panoramica su quale può essere l’incidenza di tecnologie legate alla Business Intelligence su quello che è il reparto Risorse Umane.
Il Prof. Antonelli comincia dicendo che ha ragionato sulle competenze digitali: “noi soffriamo come economisti, statistici, sociologi della carente applicazione di una serie di strumenti di analisi di cui si è fatto riferimento in precedenza. Sarebbero necessarie, e sono in corso le attivazioni da parte di diverse Organizzazioni, di dati che consentano di andare a utilizzo a livello di micro-dato delle informazioni per poter ricostruire sulla base di modelli o cercando induttivamente all’interno dei dati i modelli interpretativi di arrivare a informazioni molto dettagliate. Questa cosa allo stadio attuale non è ancora possibile. Sui quesiti riguardanti lo sviluppo delle competenze digitali in quadro comparativo, il problema dell’esistenza o meno di un mismatch inteso come carenza di skill necessarie per lo sviluppo del settore ICT può avere risposta in termini aggregati e non raffinati”.
Quindi fa riferimento a quelle che possono essere definite competenze professionali o Digital Skill. Malgrado la necessità di migliorare pesantemente il tipo di disponibilità di dati, è importante calibrare l’attenzione su 4 categorie di competenze. Skill = Competenze. Ci sono competenze professionali che hanno bisogno di parte conoscitiva e parte applicativa.
Le competenze professionali sono l’insieme di abilità e capacità che emergono dalla fusione delle conoscenze che l’individuo ha nel posto di lavoro in cui viene collocato. Il problema è proprio questo: la fusione tra le conoscenze di base e i requisiti di uso di queste conoscenze all’interno dell’azienda in contesti molto più articolati e complessi.
Ragionando su quelle che sono le competenze professionali digitali, utilizzando le categorie di cui dispone l’OCSE, si possono distinguere 4 categorie di competenze professionali. Questi skills rilevano il fatto che un numero crescente di occupazioni deve disporre di competenze digitali per essere in grado di usare sul posto di lavoro le tecnologie ICT. Si comincia perciò a segnalare il problema di ambiente, caratterizzato da competenze e conoscenze che possono favorire certe scelte strategiche anziché altre. Il Prof. Antonelli mostra dei dati dove si può vedere come si distribuiscono in termini percentuali questo tipo di skills sul complesso dei lavoratori . L’Italia è al penultimo posto, prima della Polonia. C’è uno scarto rispetto alla media, e c’è un problema di gender: la percentuale di lavoratori con queste competenze è più elevata nei maschi piuttosto che nelle femmine.
Il 20% degli uomini e il 5% delle donne, utilizzano giornalmente un software di lavoro. Passando alla seconda categoria, si vede quella degli specialisti che riguarda la condizione di prodotti e servizi ICT software, e-commerce, cloud, big data, dove si impiegano competenze (per programmare, sviluppare applicazione gestire reti etc.) molto importanti anche nell’economia.
La globalizzazione ha comportato la formazione di reti sovranazionali che pongono problemi di coordinamento molto diversi dai distretti che conosciamo. Sono reti in cui le imprese si vanno a collocare con un ruolo più o meno rilevante a seconda del tipo di attività svolta. Il coordinamento può essere fatto e migliorato con strumenti di carattere informatico.
Se esiste qualcosa che può raggruppare imprese nel futuro non è il distretto industriale a cui siamo abituati, ma sono le reti di carattere sovra-nazione in cui gli strumenti di gestione dati diventano fondamentali per il coordinamento e per le scelte strategiche.
Nel 2014 questi specialisti rappresentavano il 3,6% di tutti i lavoratori nei paesi OCSE. La Germania per esempio al 6% con componente femminile 4%, mentre l’Italia intorno al 4% con componente femminile 1%. Inoltre il 41% delle azienda rappresenta grande difficoltà nel ricoprire posti vacanti per specialisti in ICT. In Italia questa percentuale è il 30%. Ma in realtà solo il 14% vorrebbe assumere quindi realisticamente le imprese in difficoltà sono il 3%. Dall’intenzione non si passa all’azione.
Si passa poi alla terza categoria, Skill Complementary. Si può evidenziare empiricamente che le nuove tecnologie ICT stanno cambiando il modo di condurre l’attività lavorativa, e cresce la domanda di competenze complementari. Per esempio: capacità di progettare informazioni complesse, di risolvere problemi con i clienti, di pianificare in anticipo e di aggiustare rapidamente. Queste sono competenze non collegate alle capacità di usare la tecnologia in modo efficiente, ma di eseguire il lavoro nel contesto di un nuovo ambiente plasmato dall’ICT.
Queste considerazioni, hanno portato dei gruppi di ricerca degli Stati Uniti a sostenere che le tecnologie digitali stanno rimpiazzando i lavoratori nelle prestazioni di lavoro routinarie e stanno aumentando la domanda di mansioni lavorative non routinarie. Questo è uno scenario etichettato come processo di robotizzazione. In Giappone per esempio, una compagnia assicurativa ha già sostituito una trentina di impiegati con l’intelligenza artificiale.
Vi è una concordanza malgrado questa varietà di scenari che è importante per quanto riguarda la formazione degli skills un approccio di “Learning to Learn”, il che significa che i lavoratori, dovrebbero generare e processare informazioni complesse, pensare sistematicamente e criticamente, prendere decisioni ponderando differenze disponibili, porsi e porre quesiti significativi sui vari temi, essere adattabili e flessibili a nuove informazioni, essere creativi, e essere in grado di identificare e risolvere problemi concreti.
Quindi i tre ambiti che si identificano sono quello cognitivo, intrapersonale e interpersonale. In relazione a quest’ultimo si sottolineano le competenze in grado di facilitare il rapporto carattere sociale e le capacità di problem solving legate al contesto reale in cui il lavoratore è collocato.
Viene mostrato poi un altro studio, da Pisa che mostra come le physical skills e le manual skills sono in netta diminuzione, mentre sono in crescita le altre competenze. Ma ricordiamo anche l’ultima categoria cioè quella delle conoscenze di base che sono necessarie per sviluppare meglio le competenze digitali. Sono interessanti due correlazioni: la prima è quella dell’alfabetizzazione, la seconda è quella delle capacità di risolvere problemi e saper leggere e scrivere. In questo modo si nota quindi che leggere e scrivere è più importante di ascoltare e parlare, per le modalità in cui si manifestano queste tecnologie. Perciò queste tradizionali basi della conoscenza diventano fondamentali, e chiaramente ci possono guidare al di là di quelli che sono gli scenari.
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